La donna che volava come se non ci fosse un Covid

Cronache di una clausura

Here we go again. Sono di nuovo in isolamento.

Nel mese di Maggio i miei pianeti erano tutti sballati. Gli Dei del Cielo devono aver pensato: facciamole fare un mese scoppiettante a questa qui.

Tant’è: rogne, più o meno serie, sul lavoro, coronate da un’emergenza familiare improvvisa che mi ha fatto volare a Lamezia Terme da Londra in circa dieci ore. Sì, in tempi di Covid19 questa è una partenza record, ma come si dice, volere è potere. Per arrivare dove dovevo arrivare, sono salita su taxi e ho distribuito mance come se fossi Athina Onassis. All’aeroporto di Roma Fiumicino dovevo cambiare aereo ma non avevo la carta d’imbarco: per fortuna ho fatto ridere uno dei poliziotti di frontiera, che mi ha ribattezzata “a portatrice de’ problemi.”

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Buon Natale

Natale è arrivato anche quest’anno, con o senza virus. Nessuno è riuscito a fermare Babbo Natale con la slitta e la mascherina. Gli alberi di Natale sono stati eretti nelle capitali del mondo occidentale, sfolgoranti di luci. In GB una variante del virus è emersa all’improvviso nel sud-ovest dell’isola. Così l’Europa ‘ancora’ unita ha chiuso le porte a chi viene da oltremanica: niente voli o transiti su ruote. Forse mancherà la lattuga, dicono i giornali inglesi. A chi è mai fregato niente della lattuga? Natale è fatto di tacchino, vegano o carnivoro che sia.

Ho fatto l’albero ecologico. Palline colorate, stella dorata, fiocco arricciolato in cima. Ho usato i colori tradizionali: verde, rosso, e oro. Sarà un Natale sobrio dicono, non si andrà a sciare, le piste sono chiuse. Ma basta spostarsi un po’ più in su ed ecco che potrete sciare liberamente in territorio austriaco. Non fu proprio sulle stazioni sciistiche che covid si diffuse l’anno scorso passando al resto d’Europa? I ricordi sono già vaghi, eppure è passato solo un anno. Un anno dall’inizio di questa pandemia, la prima della nostra vita —se si esclude l’AIDS degli anni ’90— che ci ha trasformato in persone migliori o peggiori, asseconda dei casi.

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Come sono cambiata da quando è in onda la Covida

Tra il Primo e il Secondo Tempo, sono anche tornata in ufficio

Non è cambiato molto, anche se sembra cambiato tutto. Le cose migliorano e poi peggiorano, a fasi alterne. Oggi siamo gli stessi di sei mesi fa, in tuta e con l’asciugamano in testa rispondiamo alle email, mentre il cestello della lavatrice gira. Camminiamo ancora tra le transenne, seguiamo le frecce, chiediamo “si può?”

Però anche i personaggi minori delle telenovele più insulse fanno dei percorsi, delle evoluzioni: figuriamoci se non siamo cambiati anche noi, da quando siamo tutti protagonisti di questa Covida.

Ci sto pensando molto in questi giorni: sono rimasta ferma mentre mi sono spostata. La mia voce non la riconosco più nei post dell’inizio dell’anno, o degli anni precedenti.

Ho cambiato idea, per la verità ne ho cambiate tre:

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Cronache di una clausura (10): The End

 

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Picture credit @ Patrick Mate

Tanti anni fa, un amico francese aveva inventato una barzelletta per prendermi in giro. Faceva più o meno così:

Scoppia la terza guerra mondiale, ma gli italiani si arrendono subito. C’è chi deve rientrare a casa perché l’acqua bolle e bisogna buttare la pasta, chi si è sporcato e vuole cambiarsi i vestiti, chi ha bisogno di un cerotto o vuole andarsi a riposare perché si è già stancato.

Grazie al contributo di amici dello stesso gruppo, la lista di scuse futili per cui gli italiani lascerebbero il fronte si allungava tutti i giorni: perché devo andare a trovare mia madre, mi si sono screpolate le mani, ho la pizza in forno, eccetera.

Tutti gli stereotipi contengono un nucleo di verità, e forse è vero che a noi italiani non piace molto imbracciare le armi (ci piace solo venderle, sembrerebbe). Comunque, io e i miei amici del 2008 non potevamo sapere che dodici anni più tardi ci sarebbe stata una guerra “da combattere in casa”, e che la performance di combattimento degli inglesi sarebbe stata pessima. Proprio loro, i rispettosi delle regole per antonomasia, i precursori della fila per salire sui mezzi pubblici, coloro che salgono e scendono dalle scale mobili in religioso silenzio. Se è vero che noi italiani quando si tratta di pizza e di mamma non guardiamo in faccia nessuno, è altrettanto vero che quando fuori è bel tempo gli inglesi perdono la loro compostezza e diventano personaggi di un episodio di Benny Hill.

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Cronache di una clausura (4): Vedere gente e Fare cose

davIeri sera, tutti alla finestra per un applauso collettivo e sincronico in onore del sistema sanitario nazionale, l’NHS. Tutti, si fa per dire.

Verso le 20 ho sentito un rombo di tamburi e un fragore metallico provenire dalla strada, proprio fuori dalla mia stanza. Una famiglia di cinque persone, genitori e tre bambini, tutti vestiti di sari indiani, suonava le percussioni quasi sulla soglia di casa, un tamburo a testa. Erano entusiasti, e facevano cenno, a noi che guardavamo da dietro i vetri, di venire fuori, di allungare i colli di struzzo. E così qualcuno ha iniziato ad affacciarsi da finestre sporadiche, accompagnando il complesso familiare con le mani. Dietro persiane abbassate, i più timidi inviavano fischi di incoraggiamento, di quelli che si fanno ficcando tutte le dita in bocca, alla faccia del virus, e ogni tanto il clacson di un’auto in transito comunicava la sua adesione.  E a quel punto ho aperto la finestra e mi sono unita anch’io. Continua a leggere “Cronache di una clausura (4): Vedere gente e Fare cose”

Cronache di una clausura (2): critical mass

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La mia coinquilina lavora molto e adesso anche più del normale. Urrà per Michela e tutti gli psicologi!

Da oggi questo timetable è entrato a parte della mia vita. Una delle mie due coinquiline, Michela, lavora come psicologa e già dalla settimana scorsa riceve i suoi pazienti nella nostra living room – li riceve, ovviamente, in maniera virtuale, su Skype. Vietato entrare in soggiorno, dunque, dal lunedì al venerdì, negli orari indicati. Continua a leggere “Cronache di una clausura (2): critical mass”

Cronache di una clausura (1): “You just know”

Fried eggs
“Man with fried egg eyes”-Photo by Steve Niedorf

È successo ieri sera. Stavo seguendo le live news della BBC. Nel mentre, stavo tentando un goffo lavoro a maglia, cominciato grazie a un tutorial di Youtube. Senza alcun preavviso, ho sentito prurito alla gola e il bisogno impellente di tossire. Il pizzicore poi mi ha toccato la punta del naso, insinuandosi nelle narici. Dieci minuti di incredulità e di shock, tra un attacco violento di tosse inframezzato da una successione di starnuti. Continua a leggere “Cronache di una clausura (1): “You just know””

Ears on Strike

“Earless face”, the bottom of my coffee cup

Some time back in January, my right ear began to “play up”. Nothing major, more like a washing machine oblo getting stuck, only to open suddenly on its own and with a loud noise.

As I said, it was nothing to worry about, as a large percentage of individuals worldwide is known to suffer from ear blockage due to wax building up – as trivial as this.

I just bought some olive oil drops and started to make fun of this with some friends.

I can’t hear you, you just spoke into my deaf ear, I would say.

 

It remained a joke until last Saturday, when I woke up and realised that I couldn’t hear anymore the noise of the vehicles running in the street under my bedroom window. I left the bed and went downstairs on soundless steps. The girl sitting at the kitchen – I knew her, my lovely flatmate – smiled at me and moved her lips to something that had to be “Good morning.”

I can’t hear you.

She laughed. It was my joke, after all.

It was like a bad dream. My ring ear was suddenly plain shut, and most surprisingly the left ear had decided to follow the example, without any warning. Continua a leggere “Ears on Strike”

Le case degli altri. Ovvero, cercare casa a Londra.

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Si ringrazia la mia amica architetta Miho Nakagawa per aver pazientemente ascoltato tutta la storia di cui sotto, e, in base alla storia, disegnato questa piantina.

Ho letto da qualche parte che il trasloco è una delle esperienze più stressanti della vita di noi umani. L’autore del testo in questione viveva a Londra.

Dover cambiare casa, ovvero doverne cercare una nuova: ore passate a leggere annunci, a scrivere email, a fare telefonate, a controllare Whatsapp. Infine, l’orrore di entrare nelle case degli altri, per immaginarti lì dentro, e decidere se la cosa può essere tollerabile o meno.

È quello che penso appena arrivata a casa di Sonia, che mi ha attirata lì con l’inganno. Continua a leggere “Le case degli altri. Ovvero, cercare casa a Londra.”

Brian Molko, il dio con il mal di gola

«Domani vado al concerto dei Placebo» annuncio all’ora di cena.

«Ah, sono quelli gay?» Chiede uno dei miei coinquilini.

«No, non sono gay» ribatte un altro, «il cantante ha pure avuto un figlio.»

Clou di una conversazione casalinga. La sera dopo, ci penso e mi viene da ridere mentre mi unisco alla fila che si avvolge come un serpentone attorno alla 02 Academy di Brixton. Sono la prima degli ultimi del pubblico che stasera vedrà esibirsi i Placebo, e soprattutto Brian Molko (il cantante non gay di cui si parlava sopra). Continua a leggere “Brian Molko, il dio con il mal di gola”